Quello di Pino Arlacchi GIOVANNI E IO , edito da Chiare Lettere è un libro molto interessante per varie ragioni. Innanzitutto perché racconta molti retroscena inediti del lavoro del pool antimafia voluto da Chinnici che ebbe in Falcone e Borsellino gli interpreti più valorosi. In secondo luogo perché l’autore (che ha svolto un importante ruolo di consulenza del gruppo di magistrati antimafia palermitani) riporta molti virgolettati dei suoi dialoghi durati molti anni con Falcone, nei quali il magistrato palermitano da le sue valutazioni anche inattese su quanto accadeva all’interno dell’universo di cosa nostra ma anche di quella “mafia di stato” (la definizione è di Arlacchi) dove si coagulavano esponenti dell’eversione nera, esponenti dei servizi segreti e degli apparati di polizia al soldo di potenze straniere a cominciare dagli Stati Uniti, della massoneria e di componenti dell’organizzazione Gladio. Questo agglomerato criminale aveva il compito di tenere sotto scacco l’Italia per impedirle una svolta verso il governo delle sinistre. In questo progetto la “mafia di stato” ha collaborato con la “mafia di cosa nostra”. Un esempio fra i tanti il delitto Mattarella, il presidente della Regione Sicilia, fratello dell’attuale Capo dello Stato, ucciso il 6 gennaio del 1980 da un commando che, secondo le convinzioni espresse anche da Giovanni Falcone in molte occasioni giudiziarie e non , era costituito da esponenti dell’eversione nera che avrebbero saldato un’alleanza con la mafia per impedire a Mattarella di proseguire non solo nel suo rapporto con il Pci, ma anche di assumere quel ruolo nazionale, come braccio destro di Aldo Moro, che gli avrebbe dato una ribalta internazionale mal tollerata dalla mafia di stato e dai suoi alleati fuori dall’Italia. Una lettura consigliata per approfondire non solo quanto è accaduto all’inizio degli anni ’80 ma soprattutto le ragioni e le alleanze tossiche che stanno dietro le stragi del ’92 e del ’93 e di molte altre che hanno avvelenato la vita democratica italiana.
Sandra Rizza è una cronista che si è formata al giornale
L’Ora e poi ha proseguito all’Ansa e a Panorama per approdare infine al Fatto
quotidiano e a Left. Si è occupata per gran parte della sua vita professionale
di giudiziaria. Ha scritto migliaia di articoli e saggi (spesso firmati insieme
a un altro giornalista di valore Giuseppe Lo Bianco) densi di informazioni e
rivelazioni, tanto importanti da diventare pilastri per chi vuole leggere, al
di là delle cronache quotidiane, in profondità le vicende criminali e il loro
sostrato di connivenze e collusioni.
Sandra per ragioni che probabilmente sono intuibili ma che
di sicuro lei, nel corso delle presentazioni, spiegherà meglio di chiunque
altro, ha deciso di misurarsi con un romanzo. Ma la mela non cade mai troppo
distante dal suo albero. E così la vicenda e i protagonisti sono intrisi fino
al midollo di mafia. La scrittrice indaga su quella borghesia mafiosa che in
tanti, soprattutto nell’ambito della politica, con sfumature inessenziali fra
destra e sinistra, vorrebbero derubricare a esagerazioni di alcuni giornalisti
e di pochi magistrati giustizialisti, ma che invece è il cemento che ha reso
quasi incrollabile l’edificio mafioso in questi 160 anni di vita e che ha
alimentato anche il terrorismo eversivo dei vertici corleonesi e dei loro
alleati in quell’agglomerato che Pino Arlacchi nel suo ultimo libro definisce
con una felice intuizione “mafia di stato”. Una “mafia di stato” che compare in
tutto il suo vigore e la sua arroganza nelle figure dei professionisti e degli
esponenti politici coprotagonisti della vicenda di un medico di successo che si
è consegnato nelle mani di cosa nostra e della sua ala politica. Sconsiglio
vivamente di rintracciare nei personaggi di finzione di questa storia intensa,
familiare e sociale, corrispondenze con i tanti soggetti finiti nelle cronache
degli ultimi decenni. Sarebbe inutile e superfluo. Il racconto di Sandra Rizza
è più vasto, più preoccupante, meno rassicurante. Non è insomma un passato che
ispira romanzi ma un reale eterno presente. Ci sono ascese politiche, ambizioni
smodate per le quali giocarsi l’amore della compagna e dei figli, ma c’è anche
un modo di vedere le cose e fare le scelte senza curarsi minimamente della
dimensione etica. NESSUNO ESCLUSO, (Ianieri edizioni per la collana Le Dalie
nere) ci parla di un assedio che le persone per bene distanti dal potere, non
solo criminale, subiscono quotidianamente e del quale pagano continuamente le
conseguenze sul piano sociale, dello sviluppo, dell’occupazione, dell’agibilità
democratica. Nessuno si salva. Tutti in un modo e nell’altro sono compromessi.
Anche le giovani generazioni hanno difficoltà a prendere le distanze dagli
affetti corrotti. Il libro ti prende a tal punto che è difficile distaccarsene.
Sandra, senza mai rinunciare al linguaggio essenziale, ha una forza evocativa
straordinaria che si manifesta soprattutto nei dialoghi-confronti fra i
familiari che hanno visioni del mondo diametralmente opposte. Alla fine del
libro mi è venuto naturale ritrovarmi in tanti di questi faccia a faccia, in
cui l’enormità del cinismo e dell’arroganza finiva per stremarmi. Penso che
dobbiate leggerlo e bearvi di quelle, purtroppo poche, pagine in corsivo nelle
quali, emergono riflessioni filosofiche letterarie che impreziosiscono la
narrazione e rivelano molto del valore dell’autrice.
Ho appena finito di leggere il
libro di Piero Melati “Paolo Borsellino per amore della verità, con le parole
di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino”, pubblicato da Sperling &Kupfer.
Te lo figuri Piero mentre legge
con accanimento libri su libri con il suo volto da intellettuale del ‘900 e tra
una sigaretta e l’altra buttare giù appunti e segnare questioni che non gli
sono chiare, spiegazioni che non lo convincono sulla lunga storia della Sicilia
e della mafia, che pure riempiono ormai milioni di pagine fra atti giudiziari e
ricostruzioni.
Siamo colleghi e da parte mia
direi anche amici. Abbiamo partecipato insieme a qualche iniziativa. In una di
queste, durante la sua direzione della Marina di libri, abbiamo intervistato
Fiammetta Borsellino. Voglio immaginare che questo libro sia nato anche da
quell’incontro e dalle forti emozioni che la figlia più piccola di Borsellino
ha consegnato a noi e al folto pubblico che l’ascoltava. Parlo dell’autore
prima che del libro perché questo libro non sarebbe quello che è senza lo
sguardo di Piero. Uomo di cultura e di letture raffinate, sempre acuto e
difficile da inserire in una categoria tanto è vasto e articolato il ventaglio
dei suoi interessi. Sempre alla Marina, ma questa volta quando non era più
direttore, ci siamo incrociati alla presentazione di un libro. Mi ha
apostrofato bonariamente con un “complottista”, seguito a ruota da altri
colleghi più anziani di noi che hanno raccontato la prima guerra di mafia e
l’inizio della seconda prima di cedere penna e taccuino alla nostra
generazione. Molti di loro sono passati al desk. Noi abbiamo attraversato anni
difficili sul campo, frequentando di giorno i magistrati che poi sarebbero
stati prima delegittimati e poi massacrati, e incrociando di sera, cercando di
mantenerci distanti, la città cinica e anche complice che ha poi infiltrato il
fronte della falsa antimafia e le prime file delle manifestazioni ufficiali.
Il libro è un racconto
indispensabile per capire di più della figura di Paolo Borsellino. Troppo
frettolosamente liquidato in un’associazione Falcone e Borsellino, che annulla
le differenze fra due persone che solo nella distinzione possono essere
pienamente esaltate nel loro valore e nella loro ricchezza di individui e
uomini dello stato.
Nessuno, almeno a mio ricordo,
aveva mai scritto con tale ricchezza di particolari (che a tratti tolgono il
respiro) l’assedio al quale sono stati sottoposti dopo via d’Amelio i familiari
del magistrato, dalla signora Agnese ai figlioli cresciuti sotto una forma di
tutela, con uomini dello stato (quale?) prodighi di consigli su cosa dire e
fare, con l’incombente presenza di un religioso che occupava ogni spazio in una
fase tremenda e dolorosa della vita della famiglia Borsellino. Il racconto
dello sforzo titanico per riuscire a liberarsi di questo assedio e
riconquistare diritto di parola e domanda di giustizia, non generica come
quella proclamata ad ogni anniversario dagli oratori ufficiali, ma facendo nomi
e cognomi di chi ha scelto il silenzio e cavalcato l’onda della vaghezza che
confina nella complicità, si può affermare che sia il vero cuore del libro di
Melati. Ma da cronista anche giudiziario Melati non rinuncia a scavare nelle
contraddizioni delle inchieste sull’eccidio del 19 luglio e rilancia la pista
di Mafia e appalti, sulla quale il magistrato stava indagando e che considerava
centrale nella ricostruzione di quanto stava accadendo e non solo a livello
regionale e criminale ma anche politico nel nostro paese. Borsellino indagava
anche su altro, aveva raccolto le confidenze di Falcone su Gladio, sugli
incroci fra criminalità organizzata e eversione nera (per chi volesse c’è un
altro libro da legger Giovanni e Io di Pino Arlacchi, edito da Chiare Lettere
che ho già citato nei miei post). Ma questo terreno forse (so che mi sono
permettere una battuta con Piero che ha senso dell’ironia!) è più congeniale al
“complottista” Cusimano, tanto che l’autore non vi si sofferma. Il fatto è che non c’è la pistola fumante né
nell’inchiesta “trattativa” né in quella “mafia & appalti”. Per chi scrive
sono facce della stessa medaglia, e nascondono un network politico – criminale,
che ha inquinato la vita, para democratica di questo paese fino a insidiarne le
fondamenta come ricorda in una delle sue rivelazioni il presidente Ciampi (che
giustamente Melati ricorda).
L’altro cuore del libro è nelle
pagine finali quelle in cui l’autore lancia il suo atto d’accusa a una
comunità(anche giornalistica) che non è riuscita “ a collocare l’argomento
mafia nella sua giusta cornice storica… accanto alle vicende delle grandi
dittature del Novecento, della guerra civile spagnola e di quelle di ogni
tempo, della Resistenza italiana, dei colpi di stato in Grecia o in Cile… “ insomma
di darle il rilievo nazionale e internazionale che meritava soprattutto per
quanto riguarda la grande reazione dei magistrati del pool e anche di tanti
cittadini perbene. La mafia è stata confinata “all’isolamento storico e
geografico di un’isola, la Sicilia, che così è potuta essere il giardino degli
orrori italiani, come se fosse sempre un mondo a parte, senza che mai la
nazione se ne sentisse in alcun modo responsabile”.
Non aggiungo altro (sulla vicenda
di Sciascia e dei professionisti dell’antimafia per esempio sulla quale, a mio
parere, mai è avvenuto un reale
chiarimento basti ricordare le parole intrise di dolore di Borsellino
pronunciate a pochi giorni dalla morte) se non la sensazione dello scarto
morale esistente fra il percorso dei figli di Borsellino, sempre sobrio,
intenso e coraggioso come quello intrapreso senza remore e arretramenti dal
loro padre, e la miseria delle istituzioni anche giudiziarie. Un libro che ti
fa abbracciare Manfredi, Lucia, Fiammetta. Ti fa sentire dalla loro parte. Ti
obbliga nell’intimo del cuore a chiedere loro scusa per non aver contribuito di
più, seppure in buona fede e con i limiti della nostra professione, nel mio
caso giornalistica, a far fare un passo avanti alla verità che resta ancora
celata nei recessi di un potere che non può affrontare la luce. Grazie Piero.
Piero Melati. Paolo Borsellino. Per amore di verità.
Nel 1963, in una giornata
qualunque, una donna vestita di nero fino alla testa che lasciava a stento
intravedere l’ovale del viso, si era presentata in tribunale di Palermo chiedendo
di poter parlare col giudice Cesare Terranova. Aveva stretta al petto una
borsa, nera anch’essa, sul fondo della quale (ma allora nessuno lo sapeva e i
controlli agli ingressi non erano quelli di oggi) teneva una pistola. Quella
donna era Serafina Battaglia. Compagna di Stefano Leale un mafioso di medio
livello, titolare di una torrefazione e abitante in via Torino una traversa
vicino alla stazione centrale e madre di Salvatore Lupo Leale (del doppio
cognome vi dirà l’autrice se avrete, come spero, il desiderio di leggere il
libro).
Serafina, detta Finuzza,
aveva avuto una vita complicata. Era povera ma era una forza della natura, un
carattere forte, determinato che si misurava alla pari con i suoi coetanei
maschi. I familiari la fecero ospitare in un convento dove una “donna senza
governo” potesse trovare un modo di convivere con le regole di una società
arcaica e maschilista che alle donne relegava solo il compito di madre e
moglie, meglio se sfatte dalle gravidanze e dall’obbedienza e dal lavoro
domestico e nei campi. Per sfuggire alle rigide regole conventuali aveva
sposato l’ortolano. Nozze senza amore ne passione finite col durare lo spazio
di un mattino. Finuzza conobbe Don Stefano alla torrefazione dove andava a
rifornirsi per le esigenze di casa e inscenando col titolare del negozio uno
scambio arguto di battute e provocazioni. Non poteva finire come è finita.
Serafina Battaglia lasciò il marito e andò a convivere con Stefano, diventando
presto la regina della torrefazione, temuta e rispettata. Nel retrobottega
dell’esercizio si tenevano riunioni di uomini d’onore, la porta, anche
nottetempo, era sempre aperta per accogliere un latitante o per ricoverare armi
utilizzate per agguati. Insomma Finuzza si rese presto conto che la sua vita
era ben più avventurosa di quanto mai avesse potuto immaginare. Poteva starsene
al suo posto, ai limiti imposti dalla tradizione, ma forse anche per la sua
condizione di adultera aveva finito con lo spostare un po’ oltre quei limiti,
sposando anche le amicizie e i segreti del compagno mafioso, condividendo con
lui e i suoi compari scampagnate, sfide al tiro con la pistola, stornelli in
cui si prendevano in giro le forze dell’ordine, si insultavano gli “infami” e
si inneggiava alla maffia. Spinge il
suo uomo a reclamare più potere e a pretendere maggiore rispetto di sé dai capi
e gregari dell’organizzazione.
Tutto questo castello comincia a crollare
quando il compagno viene sospettato di aver partecipato ad un delitto di un
uomo vicino al capocosca Salvatore Greco detto “cicchiteddu”. Serafina riesce a sventare (con modalità che
non annoto per non togliervi il piacere della lettura) il primo agguato, ma
nulla può contro il secondo avvenuto nei pressi di casa. Muore il compagno e due
anni dopo anche il figliolo Salvatore “Totuccio” a 21 anni, cinque mesi meno
tre giorni viene assassinato perché sospettato di stare preparando, spinto da
Finuzza, la vendetta del padre.
Il cerchio si chiude con
l’incontro fra la donna e Cesare Terranova che istruisce il processo e porta
alla sbarra le cosche responsabili non solo dei due delitti Leale ma anche di
innumerevoli altri omicidi e reati. Ne scaturirono processi tenuti in varie
corti italiane (ricorderete che allora si riteneva la Sicilia una terra troppo
coinvolta per celebrare i procedimenti e quindi fosse necessario per legittima suspicione spostarli altrove).
Serafina Battaglia in quei processi, soprattutto in quello ai mandanti (i Rimi
di Alcamo) e agli esecutori materiali fu protagonista in tutti i sensi,
conquistò la scena sfidando i boss, insultandoli in maniera mai vista prima e
nella bocca di una donna e con l’estremo sfregio di uno sputo pubblico verso
chi si era macchiato dell’uccisione di un “picciliddu”, il figlio Totuccio
appunto che l’aveva indotta a scegliere la strada della giustizia per
vendicarsi e di affidare tutti i suoi segreti al giudice (Giudice Terranova ce n’è uno solo sulla terra. Uno solo. E non offendo
a tutti. Come gliel’ho detto, lo dico e lo firmo col sangue…Però onesto come
Terranova non ce n’è sulla terra. E noi due possiamo fare battaglia dicendo
sempre la verità e con coscienza”.)
In corsivo la trascrizione di
una delle risposte che Serafina Battaglia diede al giornalista che la
intervistò nel 1967 per una delle più importanti trasmissioni televisive di
approfondimento dell’epoca TV Sette.
Fin qui i fatti molto in
sintesi. Il libro di Marza Sabella, magistrato che ha lavorato per decenni a
inchieste sulla mafia e sui latitanti e che al momento della pubblicazione del
libro svolge il compito di facente funzione di procuratore della Repubblica di Palermo,
è uno straordinario ritratto di una donna coraggiosa difficilmente definibile
con le categorie che in questi anni recenti dell’antimafia si sono
sclerotizzate fino a fare perdere la corporeità e la ricchezza di sfumature dei
testimoni di giustizia. Finuzza è religiosa e insieme laica, ha eretto un
altare a casa sua dove le foto del compagno e del figlio sono accanto alla
statuetta della Madonna sofferente con il manto nero del lutto. Non esita a
maledire santi e preti. Ce l’ha soprattutto con il parroco che la confina
all’ultimo banco della chiesa e le impedisce di comunicarsi e col vescovo
timoroso che la “collaboratrice ante litteram” parli troppo della Democrazia
cristiana e dei legami che con essa intrattengono i mafiosi alcamesi. “Durante i funerali il prete non accennò
all’omicidio, né condannò il gesto dei sicari e rimase concentrato sulla
resurrezione…La speranza di una vita nell’aldilà, migliore della presente, un
fastello di nuvole e fiori da godere senza fatica, eroicizzava la mano
assassina per l’opportunità concessa al defunto pur senza renderne invidiabile
la sorte”. Marzia Sabella in poche righe coglie il limite di una Chiesa che
per molti anni da allora in poi avrà difficoltà a condannare la mafia come
organizzazione a denunciarne alleanze e collusioni. Il libro traccia il disegno
di un’epoca oppressa, in cui gli uomini e le donne subiscono i condizionamenti
della mafia e della chiesa e in cui la politica non offre ne visioni né
speranze e dove (come ben comprese l’organizzazione criminale cominciando
proprio nel 1979 la campagna di sterminio di magistrati investigatori e
giornalisti e politici che avevano rifiutato di piegarsi) però andava
sviluppandosi un fronte di ribellione.
Ma per Serafina che dopo le
condanne (degli esecutori) e anche le assoluzioni (dei Rimi) vivrà fino alla
fine della sua vita chiusa nel suo appartamento, costantemente minacciata e
oggetto di insulti, di scritte ostili sulle mura vicine alla sua abitazione e
di lettere anonime che le ricordavano nei modi che potete immaginare che aveva
lasciato il marito per scegliere l’amore e la passione (la lussuria diceva il parroco), sempre con la pistola sul cuscino, non
ci saranno manifestazioni di solidarietà. Lei stessa si terrà lontana da ogni
tentativo di essere accomunata agli altri testimoni (quasi tutti maschi) con i
quali non condivide nulla. La sua scelta era stata il frutto di un dolore
inestinguibile, la morte del figlio giovanissimo che amava più di sé stessa e
che lei vivrà come una condanna definitiva. Non dimenticherà mai di aver spinto
il figlio verso il destino di morte istigandolo a preparare una ritorsione
tanto inverosimile perché nelle mani di un giovane docile, ben educato,
invaghito di una coetanea, dolce, privo delle connotazioni di un mafioso.
Marzia Sabella anche ricorrendo a un sapiente intreccio di fatti e invenzioni
letterarie e a un linguaggio aderente alla realtà dell’epoca e dei personaggi,
crudo e spietato, non cede alla retorica dell’antimafia che dopo le stragi del
’92 si è impadronita della narrazione del crimine e dei suoi protagonisti
diventando indigeribile. Ma riporta tutti i personaggi alla loro autenticità
costringendoci a fare i conti con la complessità delle sfumature, con le
incongruenze e le contraddizioni degli esseri umani. Un libro niente affatto
rassicurante che ha tanti meriti non solo “ideologici”. Ha fatto riemergere
dall’oblio un personaggio da tragedia greca, dal carattere d’acciaio che aveva
trovato la chiave giusta per ricondurre la mafia e i padrini alla loro
dimensione con lo sberleffo: “La supremazia della mafia sull’autorità
costituita perdeva la sua ragione d’essere nello sberleffo di una donna, e ,
per di più, per mano di una popolana- scrive Marzia Sabella… Si divertiva,
donna Serafina, a ridicolizzare gli uomini d’onore… ci dissi a Totò, levati la coppula di malandrino e mettiti un paru di curnazza
‘n tiesta ch ti stannu cchiù megghiu. Gli e l’ho detto di faccia a faccia, di
fronte ai giudici “.
Sboccata, offensiva,
coraggiosa “No, non ne ho terrore,
niente, niente, niente”. Serafina Battaglia riconquista, grazie al libro di
Marzia Sabella, il posto che nella decennale guerra fra mafia, cittadini e
istituzioni si combatte contro la mafia. Siamo certi che a lei questo nostro
giudizio non farebbe né caldo né freddo, e forse ci gratificherebbe di uno
sputo, come quello riservato alla tv che trasmette insulsi talk show sulla
mafia che spettacolarizzano il dolore e rendono le persone figurine di cartone da
dismettere a fine trasmissione accartocciandole fino alla nuova occasione. Mi
piace ricordare a conclusione di questa nota che Marzia Sabella ricorda nel suo
libro Mario Francese, il coraggioso cronista del Giornale di Sicilia ucciso nel
1979 in quella stagione terribile alla quale accennavo. Fu proprio Mario
Francese a trovare un avvocato che difendesse la Battaglia davanti alla quale
tutte le porte si erano chiuse.
Questo articolo è stato pubblicato il 13 aprile 2018 sul blog Mafie di Repubblica.it. Se volete leggerlo, dare il like e condividerlo fatelo per favore da questo link:
Nel settembre del 2013, pochi mesi dopo la sua elezione al soglio di Pietro, papa Francesco Bergoglio incontra nell’aula Paolo VI in Vaticano le dame (in nero) e i Cavalieri (con mantello bianco con doppia croce rossa sovrapposta) dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme riuniti a Roma per la Consulta mondiale che si tiene ogni cinque anni.
Francesco ricorda alla platea il loro compito di “pellegrini” non “erranti”, l’obiettivo di Camminare, Costruire e Confessare in ogni momento del loro progetto associativo. E in conclusione il Pontefice non rinuncia a uno dei suoi ricorrenti leitmotiv “la fede non allontana dalla responsabilità per una società migliore”. Insomma la fede non può essere blandita come un privilegio, come una casta o una loggia al riparo della quale giocare la propria personale partita per il potere.
Sono passati trenta anni dagli anni più bui dell’Ordine in Sicilia e probabilmente nella sala Paolo VI non c’è più nessuno dei vecchi aderenti all’associazione nell’isola. Se ci fosse stato sarebbe stato percorso da un brivido tanto erano taglienti le parole del Papa seppure pronunciate con ferma pacatezza.
In Sicilia negli anni ’70 e ‘80 in realtà Dame e Cavalieri erano ben altra cosa. Ricordavano piuttosto una loggia o una stanza di compensazione in cui era possibile saldare relazioni interessate e dove la missione del “costruire” auspicata trenta anni dopo dal Papa innovatore era più diretta alle carriere e alle ambizioni spicciole che al bene più generale della comunità cristiana. Anche a costo di frequentazioni imbarazzanti.
Nel 1982/83, come testimonia nel suo gran libro “La Città marcia” Bianca Stancanelli, circolavano nelle redazioni dei giornali, non senza provocare pochi imbarazzi (anche fra i giornalisti, i direttori e gli editori), gli elenchi degli iscritti all’Ordine. Ovviamente liste ufficiali-non ufficiali che hanno consentito non poche prese di distanze e smentite.
In quel gruppo figuravano esponenti di spicco della borghesia palermitana e della provincia, giudici, procuratori della repubblica, superpoliziotti, ufficiali dell’esercito e delle forze armate, docenti dell’università, politici, amministratori comunali, banchieri, imprenditori.
Alla testa della robusta pattuglia che si riuniva per le celebrazioni esclusive nel più splendente dei duomi siciliani, quello di Monreale, c’erano l’aristocratico conte Arturo Cassina, “Luogotenente” dell’Ordine, regista più che trentennale degli appalti per la manutenzione al comune di Palermo e il vescovo di Monreale Salvatore Cassisa, a capo della diocesi più vasta dell’isola e personaggio fra i più discussi della Chiesa siciliana. I meno giovani ricorderanno che Cassisa fu allontanato a forza da una diocesi e una abitazione che non aveva alcun diritto di abitare dopo una estenuante battaglia e l’intervento senza precedenti della Congregazione per i Vescovi.
A far da scorta a Cassina e Cassisa comandanti dei carabinieri, giudici e “sbirri”. Negli stessi anni in cui l’offensiva mafiosa si faceva più clamorosa e morivano sotto i colpi delle cosche il prefetto Dalla Chiesa e Pio La Torre, sedevano fianco a fianco, sfiorandosi appena con i mantelli candidi, uomini di potere che volevano sfuggire a controlli e inchieste e alte magistratura che avrebbero dovuto indagare sul loro conto.
Non a caso l’ex sindaco di Palermo Insalaco, assassinato nel 1988 da Domenico Ganci, uno dei figli del boss della Noce Raffaele, nel suo memoriale puntava l’indice contro Cassina e non mancava occasione di sottolineare il “cerchio magico” che proteggeva il nobile imprenditore e nel quale in prima fila erano proprio appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura che di giorno militavano nei palazzi di giustizia e nelle caserme e nei fine settimana curavano poi relazioni improprie fra gli scranni del Duomo di Monreale, fra un bisbiglio e un’orazione.
Gli elenchi si possono ritrovare senza tanti sforzi con una breve navigazione in rete. Di certo fra loro anche tanti in buona fede. Ma resta sospetta la quantità di affiliazioni di personalità così autorevoli e prestigiose e potenti. Gli adepti avevano tutti un sogno da realizzare, il primo dei quali entrare nella stretta cerchia “degli uomini che contano”, uscire dalla stretta dimensione provinciale per assurgere a uno scenario nazionale o addirittura internazionale.
Giovanni Falcone che non parlava mai a sproposito ed era sempre controllatissimo, a Bianca Stancanelli consegna un ritratto al vetriolo dei Cavalieri Equestri “il vero potere in Sicilia” ben più potenti degli altri “cavalieri”, quelli “del lavoro catanesi” che un impero economico retto su vaste relazioni anche scottanti coltivavano in gran parte dell’isola e anche oltre lo Stretto.
Tuttavia nonostante i sospetti e gli articoli dei giornali Chiesa e Csm si guardarono bene dall’intervenire per sciogliere o commissariare quella che sempre più appariva come una tribù fondata sullo scambio, le minacce, le inchieste finalizzate a fiaccare i resistenti, la costruzione di ricchezze incommensurabili, il sostanziale mantenimento dello status quo.
Ci provarono dopo le stragi anche le vedove della mafia, Agnese Borsellino e dopo di lei Maria Falcone e Rita Bartoli Costa a invocare interventi drastici del Vaticano per un’azione energica di pulizia in quegli spazi plumbei in cui i mantelli con croci intrecciate non assicuravano trasparenza e rettitudine.
Negli anni ‘90 e Duemila, testimoni e collaboratori di giustizia sciorinarono ben altri nomi che transitavano senza esitazione alcuna dalle logge massoniche agli Ordini equestri, compreso quello del Santo Sepolcro. A Messina e in Calabria soprattutto.
Palermo cominciò a spegnersi o forse solo a rientrare nell’ombra per far dimenticare le voci, i sospetti e anche le inchieste che squassarono l’impero di Cassina e la diocesi di Cassisa.
Devo a Ernesto Bazan, fotografo di fama internazionale che mi onora della sua amicizia, se dopo più di venti anni sono tornato a Trapani per assistere alla Processione dei “Misteri”. Ernesto da 17 anni tiene uno dei suoi workshop nella città siciliana durante la Settimana Santa. Io sono andato con mio figlio (che per la prima volta ha scattato con la pellicola con la Canon F1 Old totalmente meccanica). Il clima di commozione, man mano che passavano le ore si accentuava. Anche per effetto della stanchezza l’autocontrollo si è attenuato e in tanti erano sinceramente presi dalla compassione. Molte cose mi hanno colpito: i dettagli dei 20 gruppi che riproducono la Via Crucis, i lunghi preparativi, la quantità di partecipanti alla processione: Non i fedeli ma musicisti, Maestranze, Confraternite, comparse, portatori di ceri e di effigi. Un calcolo approssimativo mi fa pensare che siano coinvolti non meno di duemila persone, alle quali si aggiungono lungo il percorso che si allunga per tutto il centro storico , prima del rientro dopo circa 24 ore,migliaia e migliaia di persone provenienti da ogni parte della Sicilia. L’ultimo gruppo a uscire è quello dell’Addolorata immediatamente preceduto dal Crocifisso in una teca di vetro portato a spalla come le altre 19 sculture o “vare” da una doppia dozzina di persone che si muovono all’unisono in quella che viene definita “annacata”, un passo a destra, uno a sinistra, uno avanti, uno indietro. Ritmo sostenuto per tutta la processione anche dai musicisti delle numerose bande provenienti da tutta la provincia e dai figuranti (dai più piccoli ai più grandi), alle autorità. Il massimo della commozione si percepisce proprio appena l’Addolorata in lutto lascia il portone della Chiesa delle anime del Purgatorio (dopo più di quattro ore dall’inizio delle “nisciute”,l’uscita delle “vare”. E’ quasi l’ora del tramonto. Prima della Statua escono dalla Chiesa centinaia di donne, per la maggior parte anziane vestite in nero. Mi fanno pensare. Forse sono vedove. Il dolore di una madre che perde il figlio giovane è tanto umano da provocare lacrime e occhi lucidi. Un climax neppure raggiunto dalla sfilata della teca del Cristo morto. Le bande chiudono il corteo intonando quello che a me è parso un unico solo motivo ripetuto ossessivamente,con piccole sfumature, o cantato dai Cori che si avvicendano lungo le viuzze. C’è ancora molta autenticità. Ernesto me lo aveva anticipato. Sono laico, ma ho studiato dai Benedettini durante il periodo della scuola media e certe atmosfere, anche con le loro venature psicologiche, mi sono familiari. Le ho nuovamente respirate dopo tanti anni. Se volete rivivere questa mia esperienza guardate nelle mia galleria di Juza le foto. Sono tante. Spero che vi trasmettano qualche emozione.
Le gallerie si trovano su www.juzaphoto.com . Il mio nickname è Cusman
A Torino nel corso della borsa di studio ebbi due straordinarie occasioni. La prima volta all’Aeritalia, industria strategica aerospaziale. In redazione arrivò la notizia che c’era stata una incursione, forse di un gruppo terroristico. Grande mobilitazione di forze dell’ordine. C’era anche una regia mobile Rai. Ci si aspettava un lungo assedio e forse uno scontro a fuoco. Non c’erano colleghi e il caposervizio mi fece uscire con la troupe. Devo dire che gli operatori a quell’epoca a Torino erano già dei giornalisti professionisti anche se l’azienda non li riconosceva come tali.L’Ordine regionale aveva riconosciuto la loro attività come praticantato e li aveva ammessi agli esami. Erano gentilissimi e come dicevo (forse perché ero l’ultimo arrivato, ero giovane, pesavo 145 chili, avevo capelli e barba lunga che facevano di me un personaggio più da romanzo che da tv ) mi avevano preso a benvolere e fin da allora ho imparato a rispettare chi sta in prima linea , telecineoperatori e fotografi, che ,spesso, fanno il lavoro sporco anche per i cronisti. Con loro imparavo a muovermi, anche a tenere la giusta distanza, a rispettare i tempi e “rubavo” quanto potevo dal loro sapere. Alla fine all’Aeritalia c’era stato un falso allarme. Non si seppe mai veramente se terroristi o rapinatori erano riusciti a infiltrarsi in una delle industrie militari fra le più importanti del paese con importanti commesse anche internazionali. Il segreto di stato fu insormontabile. Le ipotesi si sprecarono ma restarono tali. Tuttavia feci il meglio che potevo. Un po’ di dettagli dettati per telefono ai colleghi di line, più d’atmosfera che di sostanza. Ne ricevetti apprezzamenti. Di fronte a tutta confusione e in un terreno per me nuovo non mi ero perso d’animo. E questo era già un risultato. Sentivo di aver conquistato qualche punto in più. I colleghi mi guardavano con attenzione o forse ero io che vedevo crescere la mia autostima. La seconda occasione fu il 31 dicembre. Ero ancora in redazione. Durante le feste si era in pochi e c’era necessità di qualcuno che sbrigasse piccoli ma importanti compiti: assistere i tecnici nel montaggio di brevi sequenze di immagini di copertura per i “vivi”, le notizie lette in studio durante il tg, oppure la raccolta di tempi e ultime parole dei servizi per i registi e la redazione delle “camicie” i fogli con le firme del servizio (redattore, telecineoperatore,montatore, nome della persona intervistata, appunto durata e ultime parole). In redazione, forse da un corrispondente arrivò la notizia che in un paesino sulle colline torinesi ,tra i botti anticipati per la fine dell’anno, c’era stato anche uno sparo. Giorgio Mensi l’operatore venne incaricato di andare e io lo accompagnai. Era una serata fredda. In molti preparavano i festeggiamenti. Ma non vivevo questa situazione come una privazione. Anzi.
Arrivati nel paesino l’arcano fu svelato. Lo sparo c’era stato. Un anziano , un uomo solitario e scontroso, infastidito dal rumoreggiare dei ragazzini che lanciavano petardi nella via e forse davanti alla sua porta di casa, aveva sparato un paio di colpi di fucile. Uno aveva raggiunto un bambino uccidendolo. Il tempo si era come bloccato. Giorgio girò delle immagini . Le inquadrature della palazzina dello sparatore, la stradina, le facce degli altri bimbi che avevano perso il loro compagno di giochi. Poi, non so per quale strano impulso, decidemmo di raggiungere la casa del bambino rimasto ucciso. I due genitori con addosso i segni di una vita di fatiche, erano attoniti. Lo sguardo basso. Le mani giunte in una silenziosa preghiera. Provai a fare qualche domanda. In qualche maniera era come se aspettassero quel momento per liberare tutto il loro dolore. Fu una narrazione piena di rimpianto, di incredulità, di disperazione. Non ricordo se avessero altri figli. Nella casa non c’erano altre persone. Erano stati lasciati soli anche dai compaesani. Forse per pudore.Raggiungemmo rapidamente via Verdi. Federico Scianò, il caporedattore, volle vedere il girato. Anche lui sorpreso che fossimo in possesso di materiale così “forte”, probabilmente all’epoca non consueto per “lo stile” del tg piemontese. Decise, con grande coraggio, di mandare in onda al posto dell’edizione della notte (allora durava una decina di minuti) l’intervista integrale. Era quello che nell’ambiente si definiva uno scoop. Un colpo giornalistico che mi accompagnò per tutta la borsa di studio e che fu un biglietto di presentazione formidabile per le successive tappe del mio stage. Piccola increspatura. Il pezzo non mi venne firmato. I “borsisti” non potevano firmare i loro pezzi. Erano clandestini.
Nel 1980 partecipai alla selezione per la borsa di studio in Rai. Vinsi una delle trenta borse del secondo concorso e scelsi come prima sede Torino. Lì, all’epoca, lavorava mio fratello e trovai facilmente sistemazione.Erano gli anni del terrorismo. Arrivai in Piemonte in inverno. Cielo basso e plumbeo come il clima che si respirava nel paese. Freddo che entrava nelle ossa . Quasi insopportabile. La redazione mi accolse con un “abbraccio meridionale”. Mi coccolavano. Uno dei componenti del Cdr (Comitato di redazione, la rappresentanza sindacale dei giornalisti) mi presentò a colleghi e tecnici. Mi consegnarono un blocco di tagliandi per la mensa, e un pass per andare allo stadio (mai viste tante partite come in quei mesi). Ho ancora delle foto ravvicinate di Dino Zoff che mi urla contro. Ero tanto contento di essere lì , da essere entrato in campo senza accorgermene mentre l’arbitro fischiava l’inizio della gara. Mi diedero anche un permesso per frequentare gli studi dove si giravano fiction e per seguire i concerti della grande orchestra della Rai. Il caporedattore a Torino era Federico Scianò, origini siciliane, un gentiluomo straordinario, un professionista di spessore, un’umanità commovente. Lo ricordo ancora con immenso affetto. Il suo vice era Carcano, un comunista arguto e ironico. Poi c’erano Luigi socialista meridionale, Paolo, un democristianino piccolo dall’incarnato chiarissimo, Mario , pancia prominente, atteggiamento da parroco di campagna che la sa lunga e sa che prima o poi diventerà vescovo. Orlando, il bello della tv, Santo della Volpe, precario informatore di cronaca giudiziaria,Corradino Mineo, cronista della redazione economico-sindacale, destinato a grandi successi professionali. Tanti tecnici, segretarie,operatori (fra tutti Giorgio Mensi) ,giornalisti fortemente impegnati nel lavoro con spirito da servizio pubblico. In redazione fui affidato a un anziano caposervizio, Guido Leoni, che mi instradò al mestiere. Allora scrivevo con la stilografica, non sapevo usare la macchina da scrivere. Imparai lì a battere con due dita. Qualche anno dopo raggiungevo la velocità di un dattilografo diplomato , ma sempre con indici e talvolta medio e pollice, accumulando inevitabilmente errori di battitura. Leoni fu paziente. Correggeva le notiziole che mi venivano affidate e presto appresi le regole del mestiere. Lo dico sempre agli amici e agli allievi che per quasi dieci anni ho avuto all’università: l’abc della professione si impara in pochi mesi. Poi si può, se si vuole, migliorare lo stile,la ricerca delle fonti, specializzarsi (io lo feci in cronaca giudiziaria),migliorare dizione (ma senza esagerare e non impostare una voce “falsa”), destreggiarsi fra “polpette avvelenate” e consigli troppo spesso interessati. Resistere alle lusinghe di un lavoro che ti da notorietà e può farti perdere la giusta distanza dalla realtà delle cose e dalle cose fondamentali della tua esistenza.
Ve lo immaginate Stefano Bontade, il “principe di Villagrazia” capo incontrastato della mafia degli Anni Ottanta fino all’avvento dei “Corleonesi”, che scrive un libro e tenta di far passare una immagine diversa, edulcorata, paternalistica di Cosa Nostra?
Oppure Luciano Liggio che affida a un giornalista o a un ghost writer le sue memorie cercando di convincere l’Italia delle sue virtù di benefattore e dei suoi meriti per aver salvato la democrazia del nostro Paese facendo mancare l’appoggio ai golpisti di Junio Valerio Borghese?
O Matteo Messina Denaro che dalla sua lunga e dorata latitanza fra un paese del trapanese e una riva assolata delle coste spagnole o francesi detta le sue verità sulla sua vita da fuggiasco, sui suoi amori e la “persecuzione” di magistrati e investigatori?
Tutto ciò vi sembrerebbe una nota stonata.
Da sempre nel gioco lungo fra guardie e ladri, fra mafiosi e forze dell’ordine, fra giornalisti e indagati ognuno è rimasto nella sua parte del campo.
I mafiosi facevano i mafiosi. Si difendevano in tribunale quando li prendevano, cercavano di sfuggire alla cattura cambiando nome (come Salvatore Cancemi), grazie a documenti falsi (come Leoluca Bagarella) avvalendosi di amici anche fra le forze dell’ordine e di strategie sofisticate messe in piedi da istituzioni corrotte e complici e da una borghesia che si vantava di avere “clientie amici” così potenti.
Ma Giuseppe Salvatore Riina , detto Salvo, il figlio del più violento capo di Cosa Nostra da un secolo a questa parte, il “terrorista” mandante dello sterminio degli avversari (centinaia di morti sulla coscienza) e delle stragi del ’92 e ’93, dei delitti eccellenti, della “trattativa” con lo stato per abbattere la legislazione contro il crimine organizzato,ha incrinato questo diaframma. Ha scritto un libro, Riina-Family Life, ed è andato in televisione per promuoverlo, ospite di quella che viene definita la “terza camera”, ovvero il salotto bianco (per quell’occasione per la verità tutto nero) di Bruno Vespa.
Una strategia nuova. Vendere il brand mafia come normalità. Una bella famiglia, piena di affetti, di rispetto, di solidarietà, di gesti comuni, il pranzo tutti intorno al tavolo, le lunghe serate noiose sul divano davanti alla tv, orari da ufficio. Anche la mafia come si sa aborre gli straordinari.
Ma quello di Salvuccio Riina non è l’unico caso, ricorderete le pagine facebook di alcuni malavitosi che esponevano foto e vita da ricconi, comunicando a loro modo l’altra faccia, la più attrattiva del crimine, quella della ricchezza, delle belle donne e delle auto potenti.
E poi c’è anche un altro modo di vendere il brand mafia, più sofisticato e giocato tutto all’interno di un mercato particolare quello dei media e della giustizia. Se ne è reso protagonista Giuseppe Graviano. Muto come un pesce e dilatorio con i magistrati che vorrebbero interrogarlo su delitti, misteri e complicità, ma loquace, ammiccando alle telecamere, dal carcere dove si trova.
Graviano ha imparato la lezione di Riina senior che dal carcere di Opera ha raccontato di “tonni” e “stragi” al suo compagno di passeggiate in cortile. E ha girato a suo vantaggio gli stratagemmi messi in campo dalla polizia penitenziaria per controllare i detenuti al 41 bis. Dice e non dice, mischia verità riscontrabili e affermazioni esplosive difficili da verificare. Alza il prezzo di una sua eventuale collaborazione. Oggi non c’è dubbio che il suo appeal sia altissimo e non c’è magistrato che non voglia prenderlo a verbale. Anche così il brand mafia aumenta il suo valore.
L’arte del “tragediare” è antica in Cosa Nostra. Infarcire falsità con chicchi di verità per dare un quadro complessivo dominato dall’ambiguità. Siamo o no nell’era della comunicazione e dell’immagine? Una filosofia che prima o dopo doveva arrivare anche dentro Cosa Nostra, dopo gli anni poveri di fascino del boss Bernardo Provenzano tutto “santini, ricotta e cicoria”.
Dai primi segnali pare proprio che la svolta è compiuta. E l’effetto moltiplicatore dei social rischia di fare il resto.
Le mie tappe di “borsista” alla Rai furono a Torino (di cui scriverò) al Tg1 (come vi ho raccontato) al Gr1 e al Gr3 prima di concludere a Palermo. Al Gr3 mi occupavo prevalentemente di esteri. Seguivo una delle crisi libanesi. Ogni giorno scorrevo giornali e agenzie per scrivere un pezzo che spesso (scandalo!!) apriva una delle edizioni del giornale. Qualcuno protestava. Il sindacato ci difendeva (il patto era che tutte le prestazioni fossero senza firma e non in voce, quindi i testi venivano affidati a uno speaker che incideva il nastro per conto nostro). Mi pare di ricordare che fosse direttore allora Mario Pinzauti . Ebbe la ventura di assistere in diretta al malore e alla morte dell’allora Direttore Generale Villy de Luca. Ne fece una cronaca essenziale e garbata. Ogni tanto capitava in redazione uno degli inviati più autorevoli della radio, Paolo Aleotti, che all’epoca seguiva soprattutto le crisi internazionali. Ci raccontava del suo lavoro, dei montaggi avventurosi dei suoi servizi utilizzando le forbici e i nastri incisi sul suo “nagra”, il registratore professionale in uso agli studi radiofonici e in una versione più portatile anche agli inviati. Faceva tutto da solo. La radio è stata sempre più povera ma anche più agile. Ci sosteneva, intendo a noi borsisti con calore e gioì alla nostra assunzione . Come lui un altro amato collega Gregorio Donato, vaticanista di prima grandezza della radio che organizzava di tanto in tanto riunioni nella sua bella casa romana con le travi a vista . Al Gr3 c’era anche Daniela Vergara, allora praticante che dopo qualche anno sarebbe approdata al Tg2 per seguire il Quirinale. Era bella e brava e anche molto alta.