di Salvatore Cusimano
Ve lo immaginate Stefano Bontade, il “principe di Villagrazia” capo incontrastato della mafia degli Anni Ottanta fino all’avvento dei “Corleonesi”, che scrive un libro e tenta di far passare una immagine diversa, edulcorata, paternalistica di Cosa Nostra?
Oppure Luciano Liggio che affida a un giornalista o a un ghost writer le sue memorie cercando di convincere l’Italia delle sue virtù di benefattore e dei suoi meriti per aver salvato la democrazia del nostro Paese facendo mancare l’appoggio ai golpisti di Junio Valerio Borghese?
O Matteo Messina Denaro che dalla sua lunga e dorata latitanza fra un paese del trapanese e una riva assolata delle coste spagnole o francesi detta le sue verità sulla sua vita da fuggiasco, sui suoi amori e la “persecuzione” di magistrati e investigatori?
Tutto ciò vi sembrerebbe una nota stonata.
Da sempre nel gioco lungo fra guardie e ladri, fra mafiosi e forze dell’ordine, fra giornalisti e indagati ognuno è rimasto nella sua parte del campo.
I mafiosi facevano i mafiosi. Si difendevano in tribunale quando li prendevano, cercavano di sfuggire alla cattura cambiando nome (come Salvatore Cancemi), grazie a documenti falsi (come Leoluca Bagarella) avvalendosi di amici anche fra le forze dell’ordine e di strategie sofisticate messe in piedi da istituzioni corrotte e complici e da una borghesia che si vantava di avere “clientie amici” così potenti.
Ma Giuseppe Salvatore Riina , detto Salvo, il figlio del più violento capo di Cosa Nostra da un secolo a questa parte, il “terrorista” mandante dello sterminio degli avversari (centinaia di morti sulla coscienza) e delle stragi del ’92 e ’93, dei delitti eccellenti, della “trattativa” con lo stato per abbattere la legislazione contro il crimine organizzato,ha incrinato questo diaframma. Ha scritto un libro, Riina-Family Life, ed è andato in televisione per promuoverlo, ospite di quella che viene definita la “terza camera”, ovvero il salotto bianco (per quell’occasione per la verità tutto nero) di Bruno Vespa.
Una strategia nuova. Vendere il brand mafia come normalità. Una bella famiglia, piena di affetti, di rispetto, di solidarietà, di gesti comuni, il pranzo tutti intorno al tavolo, le lunghe serate noiose sul divano davanti alla tv, orari da ufficio. Anche la mafia come si sa aborre gli straordinari.
Ma quello di Salvuccio Riina non è l’unico caso, ricorderete le pagine facebook di alcuni malavitosi che esponevano foto e vita da ricconi, comunicando a loro modo l’altra faccia, la più attrattiva del crimine, quella della ricchezza, delle belle donne e delle auto potenti.
E poi c’è anche un altro modo di vendere il brand mafia, più sofisticato e giocato tutto all’interno di un mercato particolare quello dei media e della giustizia. Se ne è reso protagonista Giuseppe Graviano. Muto come un pesce e dilatorio con i magistrati che vorrebbero interrogarlo su delitti, misteri e complicità, ma loquace, ammiccando alle telecamere, dal carcere dove si trova.
Graviano ha imparato la lezione di Riina senior che dal carcere di Opera ha raccontato di “tonni” e “stragi” al suo compagno di passeggiate in cortile. E ha girato a suo vantaggio gli stratagemmi messi in campo dalla polizia penitenziaria per controllare i detenuti al 41 bis. Dice e non dice, mischia verità riscontrabili e affermazioni esplosive difficili da verificare. Alza il prezzo di una sua eventuale collaborazione. Oggi non c’è dubbio che il suo appeal sia altissimo e non c’è magistrato che non voglia prenderlo a verbale. Anche così il brand mafia aumenta il suo valore.
L’arte del “tragediare” è antica in Cosa Nostra. Infarcire falsità con chicchi di verità per dare un quadro complessivo dominato dall’ambiguità. Siamo o no nell’era della comunicazione e dell’immagine? Una filosofia che prima o dopo doveva arrivare anche dentro Cosa Nostra, dopo gli anni poveri di fascino del boss Bernardo Provenzano tutto “santini, ricotta e cicoria”.
Dai primi segnali pare proprio che la svolta è compiuta. E l’effetto moltiplicatore dei social rischia di fare il resto.